Amo molto la letteratura sudamericana (e tutto il Sudamerica… non si era capito? ). Chiloè è un nome che ritorna spesso in vari libri. Quando il protagonista di un romanzo ha un problema da risolvere o una sofferenza da smaltire, si rifugia a Chiloe.
Lo fa la ragazzina disadattata di “Il quaderno di Maya” di Isabel Allende, che a Chiloe va a disintossicarsi. Lo sa anche Sepulveda, che fa di Chiloe il rifugio di una coppia che ha subito le torture e i soprusi della dittatura nel suo ultimo libro: “La fine della storia”.
Marcela Serrano ha immaginato addirittura sull’isola un ricovero per donne tristi che qui si leccano le ferite e trovano la forza per riprendersi da storie d’amore sbagliate nel suo bellissimo romanzo “L’albergo delle donne tristi”.
Le suggestioni letterarie hanno la loro forza. Per questo motivo ho voluto includere qualche giorno a Chiloe nel mio viaggio in Cile, sebbene un po’ fuori mano e la nostra estate non fosse il periodo climaticamente migliore.
Mi piacerebbe, inoltre, che chi c’è già stato commentasse dandomi la sua opinione: che impressione ne avete avuto? Chiloe è davvero il rifugio per gli animi tristi?
Il nostro primo assaggio con la regione lo abbiamo con l’aeroporto di Puerto Montt. Arrivando dal Nord, dalla capitale in particolare, capiamo subito che qui la regione è completamente diversa. L’aeroporto, nuovo e luminoso, profuma di legno e, subito nel parcheggio, siamo circondate da conifere. Capiremo presto che l’isola sembra un mix tra Canada, Svezia e la verde Irlanda.
All’aeroporto ci attende l’auto a noleggio: completamente nuova, con ancora la plastica attaccata negli interni. Non mi sono ancora abituata al fatto che il Cile, nonostante sia in America Latina, per molti aspetti sembra il corrispettivo della Svizzera.
Non passano molto chilometri e cominciamo a vedere i panorami che ci seguiranno per tutto il viaggio: pascoli verdi puntinati da pecore, mucche e cavalli in libertà. Un ambiente rilassante, agreste e quasi montano, che si fonderà, nelle cittadine, con la vita invece di mare, fatta di barche, di pescatori e di molluschi…. E di vento.
La prima città in cui ci si imbatte sull’isola è Ancud. Sotto una pioggia torrenziale (che però dura poco, visto che il clima qui è molto variabile e imprevedibile) cerchiamo un ristorante per fare una incredibile esperienza culinaria: il curanto.
Il curanto è un mix di cozze, vongole giganti (rimarrete scioccati dalle dimensioni dei molluschi da queste parti), maiale, pollo e vari tipi di patate. La ricetta originaria prevede che sia cotto in una buca sotto terra.
Il tutto è innaffiato da un ottimo vino Carmenere (simile al Merlot).
La nostra meta finale è la città di Castro, che dista una ulteriore oretta. È stata scelta perché è la città principale dell’isola, posizionata strategicamente a metà e nota per i suoi “Palafitos”.
La marea da queste parti domina e regola la vita. Molte case sul mare sono quindi costruite su palafitte: le barche vengono attaccate ai pali, in modo da poter salire o scendere con le maree.
La foto più bella, a mio avvio, dei Palafitos, la avrete dal ponte Gamboa.
Oggi molti Palafitos sono stati ristrutturati e ospitano caldi ristoranti o hotel di design.
Anche io ho dormito in una stanza su un Palafito, circondata da 3 lati da vetrate sull’acqua. Ci si addormenta con la terra e ci si risveglia circondati dal mare.
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